di Martin Scorsese (Usa, 2013)

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Ascesa ed estinzione del Lupo di Wall Street: Jordan Belfort, che alla fine dei mirabolanti anni ’80 entrò nel gotha della finanza dalla porta di servizio. E ne uscì anni dopo (con le manette) da quella principale, portando con sé decine di milioni di euro. Guadagnati sulle spalle di investitori gabbati e spesi sulle schiene di prostitute, preferibilmente accompagnate dalle migliori droghe in circolazione.

Si era creata una grande attesa attorno all’ultimo film di Scorsese. Come dice un amico, il maestro del cinema italoamericano “è in pensione da 10 anni”. E questa sembrava l’occasione giusta per tornare ai vecchi fasti del gangster movie d’autore. I fasti di Quei bravi ragazzi, per intenderci, o di Casinò. Bastava sostituire la band di malavitosi di quartiere con degli avvoltoi, casuali, dell’alta finanza. E mantenere la stesso occhio da entomologo sulle vite dei protagonisti: pulsioni, frustrazioni, passioni e tradimenti.

Le premesse per qualcosa di straordinario c’erano tutte. Nel portare sullo schermo la storia di questo antieroe moderno, però, qualcosa è andato in corto. E non solo perché il Jordan Belfort di Leonardo DiCaprio (anche stavolta interprete eccezionale) inizia da subito un dialogo diretto con lo spettatore che, alla lunga, irrita. Ciò che fa saltare davvero i meccanismi del gran circo del Lupo di Wall Street è la scelta di mostrare no stop (per 3 ore) gli eccessi del Lupo e del suo branco senza mai concentrarsi più di tanto sulle psicologie di questi personaggi. E’ come se nella foga di rappresentare questi finanzieri a tre desideri, denaro, droga e sesso (rigorosamente in quest’ordine), Scorsese li abbia resi un po’ bidimensionali. Costringendo nel frattempo lo spettatore a una maratona parossistica di follia che, dopo la prima ora e mezza, diventa caricaturale.

Si dirà: il patto con lo spettatore è rotto fin dall’inizio, basta il lancio di nani (!!!) contro un bersaglio a far capire l’andazzo. Vero, ma questo non rendo meno stucchevole, a tratti, la serie ininterrotta si straordinari eventi che compone di fatto il film. Un po’ come se Paura e delirio a Las Vegas e Wall Street facessero a braccio di ferro. E il primo spezzasse l’arto al secondo, vantandosene per tre ore.

Quindi? Quindi resta un film di Scorsese, con delle inquadrature (guarda caso la più quiete, per così dire) che valgono la visione, una truppa di attori magistrali e una quantità di attrici bellissime (e seminude) da far girare la testa. Oltre che la riscoperta di un talento incompreso del cinema statunitense: Matthew McConaughey.

Nebraska

Pubblicato: gennaio 25, 2014 in Recensioni
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di Alexander Payne  (Usa, 2013)

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Ha ancora senso fare un road movie nel 2013? E in bianco e nero, per giunta? Se vi foste mai posti questa domanda, la migliore risposta che possiate trovare oggi in sala è l’ultimo film di Alexander Payne. In molti hanno paragonato Nebraska, quasi sempre in negativo, al bellissimo Una storia vera di David Lynch. Impossibile non farlo, visto che non capita spesso di vedere un road movie con un anziano un po’ picchiatello che attraversa, a ritmo di lumaca, le arterie più profonde degli Stati Uniti.

Eppure il nuovo film di Payne ha il merito di fare qualcosa che Lynch aveva sfiorato solo in parte: buttarla sul familiare, come piace fare al regista di Paradiso Amaro. E così questo road movie alla rovescia diventa un modo, commovente, di riflettere sulla famiglia. Su quello che succede quando a un figlio tocca fare da padre al proprio padre. Quando scopri, tuo malgrado, che i tuoi lontani cugini che non vedi da anni sono diventati dei buoni a nulla. E che i tuoi genitori, forse, non si amavano tanto quanto credevi da piccolo.

Il grande merito di Payne, soprattutto, è quello di ritrarre una provincia americana semi abbandonata e ridicola senza mai cadere nel grottesco. Realizzando un ritratto fedele di un Paese di loser dimenticati, colpevoli di vivere in mezzo al nulla, al centro di una Nazione sterminata come gli Usa. E poi c’è Bruce Dern, straordinario e toccante come pochi nel ruolo di un anziano che sta mollando gli ultimi ormeggi con la realtà.
Si gioca l’Oscar con Bale e DiCaprio, sarà una bella sfida.

American Hustle

Pubblicato: gennaio 13, 2014 in Recensioni
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di David O. Russell (USA, 2013)

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Ogni tanto capita un film che ti ricorda, improvvisamente, perché il Cinema è innanzitutto cinema statunitense. American Hustle è uno di quei film. Uno di quelli che ti viene voglia di rivedere appena iniziano i titoli di coda. Uno di quei film in cui il cocktail di sceneggiatura, attori, regia e fotografia è, semplicemente, perfetto.

Anche qui, come aveva fatto Ben Affleck con Argo, David O. Russell va a pescare un’incredibile storia “vera” dagli indimenticabili anni ’70. Anni che, per il cinema statunitense, sono stati davvero indimenticabili. Visto che hanno regalato alla storia nomi immortali del grande schermo come Scorsese e Coppola.

Ed è impossibile non pensare alla lezioni di Scorsese e Coppola, ma anche a quella dell’Anderson di Boogie Nights, di fronte al tourbillion di eventi, inganni e doppi giochi messo in scena magistralmente da Russell. Il ritratto tragicomico di una società dove tutti recitano, o mentono, nel disperato tentativo di diventare qualcuno. Ossessionati dell’idea di essere “real”, veri, in un mondo dove anche la salvezza dei protagonisti (due straordinari Christian Bale ed Amy Adams) passa dall’inganno.
Una piccola lezione di cinema che è stata già riconosciuta dai Golden Globes (tre premi su sette nomination), nella speranza che i prossimi Oscar non siano da meno.

di Pierfrancesco “Pif” Diliberto (Italia, 2013)

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Pierfrancesco Diliberto ha dimostrato ampiamente di essere uno dei “prodotti” migliori di quella strana fucina di talenti che è stata negli anni Le Iene. Al contrario di molti suoi colleghi, rimasti intrappolati nel proprio personaggio con gli occhiali neri o scomparsi, lui forse qualcosa da dire ce l’aveva davvero. O piuttosto da mostrare, mettendosi accanto al soggetto dei suoi reportage, senza mai coprirlo troppo. Difficile negare che le comuni origini palermitane, insieme all’esperienza della “fuga” dalla Sicilia, me lo rendano per di più particolarmente simpatico. Eppure, di fronte alla sua prima opera cinematografica, sono rimasto interdetto.

Perché? Perché lo spirito naif che anima i lavori televisivi di Pif non funziona sul grande schermo come sul piccolo. Perché La mafia uccide solo d’estate, per quanto godibile, è un film sbilanciato. Tra una prima parte infantile molto allungata (debitrice di un certo Sorrentino) e una seconda, riferita alla maturità del protagonista, un po’ tirata via. Scritta in fretta, forse.

D’accordo, è un’opera prima. Ma è comunque l’opera prima di un “autore” (televisivo?) che dietro la telecamera ci sta da anni e che, magari, si poteva sforzare un po’ di più nel passaggio alla macchina da presa. Alla fine resta l’impressione di trovarsi di fronte a un prodotto gradevole, una sorta di bignamino della mafia for dummies. Ma a Pietro Grasso, che lo ha definito “il più bel film sulla mafia che abbia mai visto”, regalerei volentieri due dvd di Scimeca e Giordana.

The Grandmaster

Pubblicato: settembre 26, 2013 in Recensioni
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di Wong Kar Wai (Hong Kong-China, 2013)

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La vita straordinaria, eppure serena, di Ip Man. Marito, padre, maestro di arti marziali (anche di Bruce Lee) e amante incompiuto. Raccontata attraverso 50 anni di storia a cavallo tra due mondi: la vecchia Cina e la nuova Hong Kong.

Dov’era finito Wong Kar Wai? Per quella generazione di cinefili con tendenze orientaliste di cui faccio parte questa domanda, negli ultimi anni, è stata ricorrente. Dove aver stregato occhi e sensi degli spettatori più raffinati con storie di amori incompiuti, e per questo perfetti, il regista di In the mood for love si era perso in lavori decisamente minori. Poi, dopo un esperimento di occidentalizzazione decisamente fallito (Un bacio romantico, 2007), più niente.

Basta guardare anche un solo fotogramma di The Grandmaster per capire dove Wong abbia passato gli ultimi cinque anni. A limare e decorare, mi sembra il termine più corretto, il film di arti marziali più sontuoso che si sia mai visto in sala in Italia. E’ impossibile rimanere indifferenti a tanta bellezza cinematografica: scenografie barocche, inquadrature perfette, fotografia raffinata, attori perfetti (a cominciare dall’ottimo, come sempre, Tony Leung). Wong, che si era cimentato con il Wuxia ai tempi di Ashes of time, incatena anche i maestri di arti marziali alla struggente malinconia d’amore che attanagliava i personaggi dei suoi film migliori. I combattimenti, magistralmente coreografati, restano tutto sommato in secondo piano rispetto alle tensioni inespresse (anche politiche) che abitano il film. Ma se The Grandmaster non funziona del tutto è per un’altra ragione.

Il problema è in un impianto narrativo poderoso, forse troppo, che intreccia senza sosta eventi storici e personaggi (entrambi complessi) abbandonandoli però a se stessi. O, almeno, questa è l’impressione che avrà lo spettatore italiano, visto che la distribuzione ha deciso di tagliare circa mezz’ora di pellicola rispetto alle due ore e trenta originali.

Non resta che recuperarlo in lingua, e montaggio, originale. Per capire se il senso di incompiutezza e sfilacciamento e si respira sia effettivamente colpa del regista, o piuttosto se anche stavolta la distribuzione sia riuscita a rendere peggiore un’opera che non lo meritava.

di Hayao Miyazaki (Jap, 2013)

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C’è una scena straordinaria nell’ultimo (in tutti i sensi) film del Maestro dell’animazione giapponese. Jiro Horikoshi, ingegnere aeronautico, è seduto alla sua scrivania e sta disegnando un nuovo aereo. A un tratto, nella foga della creazione, si alza il vento, i suoi capelli si agitano, l’oggetto della creazione prende vita nello stanzino dove Jiro è confinato. Insieme, creatore e creatura di carta, volano nel cielo.

E’ il miracolo della creazione artistica, quello che Miyazaki ha sperimentato per decenni e a cui adesso ha deciso di rinunciare. E’ impossibile non guardare Kaze Tachinu senza pensare di assistere al testamento spirituale del regista giapponese, visto che di fatto è proprio di questo che si tratta. Mai un suo film era stato così personale: Jiro “è” Miyazaki, in tutti i sensi. E non solo perché la famiglia del regista era coinvolta in prima persona nelle realizzazione degli splendidi aerei che prendono vita nel film.
La storia melodrammatica del progettista dell’A6M “Zero” fighter, il caccia passato tristemente alla storia dopo l’attacco a Pearl Harbor, è quasi un pretesto per raccontare le meraviglie della creazione artistica. “Una vita creativa dura dieci anni”, suggerisce l’ingegnere italiano Gianni Caproni a Jiro-Miyazaki, in una dei bellissimi sogni che punteggiano il film. La vita creativa di Miyazaki, per nostra fortuna, è durata molto di più. E si chiude oggi con un film bellissimo e intenso, anche se si tratta di una pellicola “minore” in una filmografia puntellata da capolavori. Perché immersa nella dura realtà, tra disastri naturali, malattie e guerra, la creatività del Maestro vola un po’ meno in alto di quando non gli abbiano concesso in passato i sogni più puri.

Gli amanti passeggeri

Pubblicato: aprile 3, 2013 in Recensioni
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di Pedro Almodovar (Spagna, 2013)

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Su un aereo che non va da nessuna parte e che rischia di schiantarsi, un gruppo di steward gay tenta in tutti i modi di intrattenere i passeggeri della prima classe (dopo aver drogato quelli in economica). Scene di panico, confessioni intime e amplessi incredibili. Fino all’inevitabile happy (& queer) ending.

Risparmiatevi due cose: il peso della delusione e il prezzo del biglietto. Gli Amanti passeggeri si candida immediatamente come peggior visione dell’anno (appena iniziato) e come scivolone cronico di un Autore che forse ha già alle sue spalle le opere migliori.
Non basta infatti l’autoevidente metafora sociopolitica (l’aereo che rischia di schiantarsi = Spagna in crisi) a salvare il destino di un film che si regge in gran parte su gag ai limiti dell’omopecoreccio, dove si ride poco e ci si diverte di meno. Qualche sorriso ogni tanto fa capolino (il balletto degli steward gay, anche se non originalissimo, funziona), ma resta l’impressione di un Almodovar autocompiaciuto e, per questo, inconcludente. I due attori-feticcio Banderas & Cruz sono gli anfitrioni che alzano il sipario, ma lo spettacolo che viene dopo non vale né il nostro tempo, né il rispetto che Almodovar si è guadagnato negli anni. Manca tanto la freschezza delle commedie graffianti dei tempi d’oro, quanto la profondità dei film drammatici della maturità. E la morale della non morale, ormai, non stupisce più come una volta.
Alla fine resta solo un motivo per vedere questo film. E ha i suoi due occhi.

The Master di Paul Thomas Anderson (Usa, 2012)

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Un marinaio americano, Freddie, ritorna dalla guerra con qualche rotella in meno e senza nessuna prospettiva davanti a sé. Finché non incontrerà l’ingombrante personalità di Lancaster Dodd, psicologo-filosofo-umanista, ma soprattutto messia di un nuovo credo che tutti chiamano la Causa.

Cosa c’è che non va in The Master? E’ questa la domanda che da circa due settimane ronza nella mia testa, mentre le opposte tifoserie che si creano di fronte a film di questo spessore mi strattonano un po’. Paul Thomas Anderson, non ci sono dubbi, è un genio. Difficilmente qualcuno potrebbe contestare questa affermazione. Uno dei pochi registi in grado di fare grande cinema e grande “il” Cinema. Per questo è sempre difficile confrontarsi con un suo nuovo film.

The Master non fa eccezione. Cinematograficamente stiamo parlando di un Uovo Fabergé. E’ praticamente impossibile trovare un solo difetto nel tessuto filmico e profilmico sullo schermo: fotografia, inquadrature, montaggio e una scelta degli attori, dei loro visi, quasi espressionista. Molti, di fronte a tanta magnificienza cinematografica, hanno parlato di manierismo. Sbagliando, secondo me. Perché non è nella bellezza delle immagini, e della regia, il problema di The Master. Casomai, dove si inceppa la bellissima macchina di Paul Thomas Anderson, è in un tessuto narrativo piuttosto esile e a volte sfibrato. Che segue con esiti altalenanti i due protagonisti del film, accompagnando soprattutto quello più scriteriato (e meno interessante) in una parabola tutto sommato poco avvincente.

Questo non vuol dire che manchino momentanee epifanie di grande cinema, anzi. Due o tre scene rimarranno a lungo nella vostra testa, così come l’assurdo esito della parabola esistenziale di Freddie. Ma questo non basta a rendere The Master quel capolavoro che si attendeva, ancora una volta, dall’autore di alcune delle pagine più belle del cinema americano contemporaneo. Più scrittura, per una volta, non avrebbe stonato. Titanico, su tutti, il santone interpretato da Seymour Hoffman sull’impronta del controverso (a dir poco) Ron Hubbard, fondatore di quella Chiesa di Scientology che vanta parecchi seguaci tra le star di Hollywood. A cui Paul Thomas Anderson, con questo film, ha praticamente dichiarato guerra.

Lo Hobbit

Pubblicato: gennaio 10, 2013 in Recensioni
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Lo Hobbit di Peter Jackson (Usa-Nuova Zelanda, 2012)
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Bilbo Baggins, tranquillo hobbit della Contea, si ritrova improvvisamente arruolato da una compagnia di nani. Per un viaggio fantastico alla ricerca dell’oro custodito da un drago malvagio.

Ci sono dei momenti in cui un regista dovrebbe fermarsi, soprattutto se ha avuto la fortuna di azzeccare una trilogia che si trasforma in qualcosa di più: un fenomeno di costume. Era successo a George Lucas, che ha deciso di riprendere in mano (con esiti decisamente altalenanti) Guerre Stellari. Sta succedendo, con le dovute proporzioni, anche a Peter Jackson.
Nel bene e nel male, a prescindere da quello che lo spettatore provasse per i mondi di Tolkien, la trilogia del Signore degli Anelli è stata qualcosa con cui tutti hanno dovuto fare i conti. Per la prima volta un regista si cimentava con qualcosa di così vasto e impegnativo da aver spaventato, per anni, anche il più coraggioso dei produttori. Realizzando un’opera cinematograficamente colossale e destinata a restare nei libri di storia del cinema delle prossime generazioni. Anche per “originalità” produttiva (la Nuova Zelanda e l’intera serie girata in un’unica soluzione, per ammortizzare i costi).
Bastava fermarsi là e dedicarsi ad altro. E invece no. Peter Jackson ha deciso di prendere in mano Lo Hobbit, libro-antefatto del grande capolavoro di Tolkien, e ha deciso di portare al cinema anche questo. L’esito, però, riesce a stento a entusiasmare soltanto il fan del genere. Vuoi per la scelta, puro exploitation di genere, di trasformare in trilogia un libro che non ha lo spessore (anche in termini di pagine) del Signore degli Anelli. Vuoi per l’overdose di orchi & orchetti degli anni passati, che rende molto meno straordinaria l’esperienza visiva del mondo tolkeniano sul grande schermo. Qualcosa di buono, per carità, c’è. A partire dal coraggioso uso sperimentale della ripresa in 48fps (straniante, ma interessante). Per il resto ci si diverte un po’, si rimane a bocca aperta un po’, ma ci si annoia molto.
Consigliato solo a chi tira un dado a 12 facce prima di ogni scelta importante.

L’intervallo di Leonardo Di Costanzo (Italia, 2012)

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Due adolescenti cresciuti in terra di camorra si ritrovano a trascorrere insieme un pomeriggio coatto dentro un vecchio edificio abbandonato. Scopriranno di avere più cose in comune di quanto pensano. E di essere entrambi, anche se in modo diverso, in trappola.

Lasciate stare le critiche di chi scomoda l’eterno ritorno del neorealismo nelle sale italiane. Il film del documentarista Di Costanzo non è l’ennesimo (squallido) tentativo di riesumare un genere per cui l’Italia è giustamente famosa nei manuali di storia del cinema mondiale. L’intervallo è un’altra cosa. Non un’operazione di marketing cinematografico, ma un film sentito e urgente di un regista che vuole raccontare una storia semplice con occhio semplice.
Due giovani intrappolati in un vecchio edificio contro la propria volontà (di più non si può dire) e un’amicizia che nasce con dolcezza, ma con l’intensità di chi è addirittura capace di mettere a rischio la propria vita per quella altrui. Più iperrealista che neorealista, L’intervallo raggiunge a tratti anche momenti di delicato onirismo che non si scordano facilmente (come nella scena in cui i due protagonisti, bravissimi, immaginano di navigare da una barca immersa in una pozza). Potrebbe essere un film del primo Kitano, una di quelle storie minime, ordinarie e disperate, che si concludono nella tragedia. Solo che per chi vive in certi zone d’Italia non è concessa nemmeno quella catarsi. E la vita quotidiana di chi non alza la testa resta la peggiore condanna.